lasciatelo

Posted: February 19, 2010 in Maelstrom

Lasciatelo in pace, sempre per sempre
di Antonio Bertoli
dedicato a David Giannoni

Lo stato di crisi sembra essere lo stato naturale del mondo. Una guerra dopo l’altra, un’arma intelligente dopo l’altra, un sacco di business contro un’alta percentuale di suicidi, l’odore della morte in mezzo a miriadi di profumi di lusso. Tutto si mescola nel mondo. Nel mondo tutto sembra andare insieme. Tutto tranne l’amore. L’amore non va insieme a niente. Non è da nessuna parte. Manca. Manca come il pane quando c’è la guerra, come il respiro nella gola dei moribondi.
Manca come il tempo negli occhi dei bambini. E’ che bisogna avere tempo per amare, talmente tanto che il tempo stesso non basta per rispondere ai bisogni dell’amore dentro di noi, alle richieste che ci pongono la voce e il sangue dall’interno di noi. La cometa dell’amore non infrange il cielo del nostro cuore che una volta sola nell’eternità. Bisogna essere attenti per coglierla. Bisogna aspettare a lungo, a lungo, a lungo. E’ questo lo stato naturale dell’amore, il suo tratto peculiare, la meraviglia della sua natura: aspettare, aspettare, aspettare. Il più lontano possibile dalla precipitazione e dal rumore. Il più lontano possibile dallo stato di crisi. Aspettare tranquillamente. Aspettare pazientemente. L’amore -e la poesia che è la sua coscienza aerea, la sua più umile figura, il suo viso al risveglio- è la profondità dell’attesa, la dolcezza dell’attesa. Nel dodicesimo secolo Chrétien de Troyes creò Perceval. Il dodicesimo secolo è come il nostro. E’ identico, tutti i secoli hanno a che fare con la medesima necessità di mangiare, di lavorare per mangiare, di sbattersi per lavorare e perdere il proprio sangue e il proprio tempo nella stessa ferita, negli stessi indecisi fuochi fatui.
Perceval si sveglia dunque un giorno alla fine del dodicesimo secolo, monta sul suo cavallo, splendente di luce, e se ne va di castello in castello, di torneo in torneo, alla ricerca di non sa nemmeno lui cosa, di quasi niente senza dubbio, del Graal, non sa nemmeno che cosa sia il Graal, Perceval, non capisce niente del libro che sta attraversando, è affaticato, Perceval, è stancante cercare qualcosa che si ignora, è stancante servire un re tronfio tutto pieno di sè, una regina un po’ troppo bella, delle donne scollate e un po’ infantili in un mondo indaffarato, agitato, in crisi. La fatica è una delle
cose più interessanti del mondo. E’ come la gelosia, come la menzogna o come la paura. Come le cose impure che teniamo lontane. Perché come quelle cose la fatica ci fa toccare terra concretamente.
Il primo volto della fatica nella vita è quello della madre, il suo viso spossato dalla solitudine. I bambini portano con sé il sogno, il riso e soprattutto la fatica. Le notti insonni, la felicità turbata. La fatica bussa subito a due porte sacre: l’amore e il sonno. Fin dalla prima infanzia. Consuma l’amore piano piano, come una goccia d’acqua sulla pietra. Il sonno lo consuma come acqua su acqua. La fatica è la barbarie del sonno nell’amore, l’incendio del sonno sui boschi dell’amore. E’
come una mamma cattiva che non si alza più di notte per confortarci e rallegrarci con la sua voce, per coccolarci tra le sue braccia. Da cosa riconoscere la gente che fa fatica. Dal fatto che fanno cose continuamente. Che impediscono che in loro entri un riposo, un silenzio, un amore. Le persone affaticate fanno degli affari, costruiscono case, si fanno una carriera. E’ per sfuggire la fatica che fanno tutte queste cose, ed è sfuggendola che vi si sottomettono. Il tempo manca al loro tempo. Ciò che fanno sempre di più lo fanno sempre meno. La vita manca alla loro vita. Fra loro stessi e loro
stessi c’è un vetro. Lo puliscono senza sosta. La fatica si vede nei loro tratti, nelle loro mani, nelle loro parole. La fatica è in loro come una nostalgia, un desiderio impossibile. Se ne vanno come Perceval da una pianura a un fiume, da un fiume a una montagna, da una montagna a una pianura.
Cosa cerca, Perceval. Non lo sa nemmeno lui, non l’ha mai saputo. Si prende appena il tempo di dormire in castelli deserti quando si sveglia, va da un’avventura all’altra e poi un giorno finalmente trova. Cosa trova. Un’anatra passa nel cielo grigio, la freccia di un cacciatore le trafigge un’ala, tre gocce di sangue cadono sulla neve. Perceval scende da cavallo, si avvicina e si china, guarda le tre macchie di sangue rosso sulla neve bianca. Guarda e riguarda. Ore ed ore. Nella loro
forma, nel loro colore, nella loro disposizione, le tre gocce di sangue gli dicono qualcosa. Gli ricordano il viso di una giovane donna, gli rivelano quanto aveva amato quel viso vedendolo, quanto grande era la sua ignoranza dell’amore che arrivava, nell’istante stesso in cui era arrivato. Non fa più niente, Perceval. La fatica non ha più presa su di lui, esce da lui, non può rientrarvi perché nemmeno lui è più in se stesso perché è solo in quell’amore lontano, perché non è più che la sua propria
assenza nell’amore che solo regna. Da cosa riconoscere chi si ama. Da quell’eccesso improvviso di calma, da quel colpo portato al cuore e dall’emorragia che ne consegue. Un’emorragia di silenzio nella parola. Chi amiamo non ha nome. Si avvicina e ci posa la mano sulla spalla prima ancora che abbiamo trovato il modo di fermarla per nominarla, per fermarla chiamandola per nome.
Tre gocce di sangue. Tre parole rosse sulla vita bianca. Dei cavalieri vengono a cercare Perceval, il re vuole parlargli. Perceval non risponde, indifferente a chi pretende di portarlo altrove, lontano, nel mondo della fatica, faticoso. La poesia comincia lì, in quel capitolo, verso la fine del dodicesimo secolo, su cinquanta centimetri di neve, quattro frasi, tre gocce di sangue. La poesia, la fine di tutte le fatiche, la rosa d’amore nelle nevi della lingua, il fiore dell’anima sul filo delle labbra. E’ in questo secolo, nella furia degli affari, dei trattati di sangue e delle guerre d’onore, che i trovatori prendono il nome di una donna tra i denti e lasciano salire il loro canto. E’ in questo mondo senza scopo che essi inventano uno scopo, la porta di un solo nome in tutte le lingue. E’ in questo tempo che nasce una nuova figura di uomo immobile, assente. Immobile sulla neve bianca, chino sull’assenza rossa, che non vuole nient’altro al mondo. Lasciatelo in pace a guardare e a sognare il suo amore, allora. Ore, giorni, secoli. Lasciatelo in pace, allora. Sempre, sempre, sempre. Sempre per
sempre.
Saludos amigo, y que viva siempre la revolution poética de la vida!!!!!!
Antonio, de mi alma a tu alma

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